La componente testuale

 Faro, naufragio, sospensione: parametri di un viaggio impossibile

 A volte, sullorlo della notte, si rimane sospesi 

e non si muore.

Milo De Angelis

Tesa in una continua sospensione tra movimento e stasi, siepe e infinito, la scrittura di Gianni Testa è una scrittura naufraga, in limine, che trova la sua ragione nella negazione volontaria di ogni certezza, nell’impossibilità costante e mai casuale di chiudere il cerchio, o di raggiungere alcuna quiete.

Il volume, scarno ed essenziale, promette un viaggio e allo stesso tempo, fin dai primissimi testi, stabilisce l’assenza di una meta: “mai mi sono perso / perche’non so dove sto andando“ (Mete secondarie), e ancora, “Cammino la linea omogenea fino al punto d’inizio; / è ‘un’altra giornata… un’altra vita” (Genesi). Se di viaggio si tratta, dunque, è un viaggio per zattera o per zeppelin, che non offre una soluzione ma piuttosto apre una serie di interrogativi, sul passato e sul presente, senza alcuna pretesa di risolverli.

E’ in questa sospensione che i testi, di lunghezza variabile e composti lungo il corso degli anni, trovano una coerenza rara in un’opera prima. Pur nell’estrema diversità dei temi portanti, tra quotidiano e altrove, tra immagini familiari e lampi di oltre-mondo, infatti, permane la consapevolezza dell’impossibilità di cercare un percorso lineare, una traiettoria univoca: il nostromo del titolo, J.H., scoperto alter ego dell’autore, non si stabilisce mai come io univoco che racconta se stesso, ma piuttosto resta un’entità mobile e indeterminata: “[…] mi coagulo e mi deformo, ingrediente di una pozione dimenticata, / algebra duodenale, strozzabudelle, miscellanea della realtà fantastica. / Amalgamato ed insaporito a dovere sono costretto a bere quello che sono, / per rinascere nuovo alla luce, bambino trasparente. / Cammino la linea omogenea fino al punto d’inizio” (ancora da Genesi). Come tale, J.H. ci guida dentro le tante variabili di un oceano da scoprire, ci accoglie sulla sua zattera e poi lascia a noi, lettori, il compito di muoverci tra le onde dei testi.

L’attenzione acuta per il peso della parola scritta, accompagnata sempre da una leggerezza molto musicale che sospende anche le poesie piu’ lunghe, trasforma il percorso di lettura in un’avventura a finale aperto, in cui ad ogni nuovo accendersi del faro si scopre una trasformazione inusuale della realtà, che ci appare a volte magica, illuminata da una luce subacquea (“Folletti sottomarini… / ritagliati nelle rocce di fondale, /fluttuano“ da Cavallucci, o “traiettoria aleatoria, canale ampio del cielo“, da Volo) e in altri casi incostante e pericolosa, specialmente quando illumina a giorno l’orrore del quotidiano: “Ti alzi la mattina e ti fanno male le ossa…fai la doccia dopo aver fatto pipì. Metti una merendina in tasca, / inserisci l’allarme. La macchina ti porta al lavoro, maledici i fastidiosi trattori… / […] Si tira avanti aspettando il lampo“ (da La vita secondo J.H.) o il fulminante “Fratturano metacarpi di noia / Nell’assolata passeggiata domenicale“ (da Alle strette). Ma anche in questi ultimi casi, un anelito per l’impossibile misto a una capacità inusuale di vedere sempre e con chiarezza il rovescio della medaglia fanno in modo che ad ogni piccolo orrore corrisponda un guizzo di irrealtà misteriosa e sospesa a cui anelare, “un bivio, un’opportunità/ L’incognita destabilizzante, il salto nel vuoto“ (da Angelo digitale).

I testi conclusivi, Non te ne accorgi e specialmente la ballata Non è possibile, che si conclude con un rovesciamento completo dell’idea di impossibilità che l’aveva aperta, riprendono ed accentuano l’idea dell’instabilità del reale, delle infinite variazioni implicite in ogni rappresentazione poetica. In questo senso, anche la negazione ultima, il “non lo farò mai più” della poesia conclusiva che, di nuovo, spezza il cerchio e lo apre ad un nuovo naufragio, si presenta come un rovesciamento, una poesia allo specchio: “Impossibile“, in fondo, “è l’unica bandiera da sventolare alta” (da Introduzione allimpossibile).

Federica Santini

 

La componente visuale

Il libro di Gianni Testa è un mosaico dalle mille tessere intimiste, asimmetriche, non convenzionali, profonde, inaspettate, coinvolgenti, illuminanti, dolcemente impertinenti e dai colori imprevedibili che solo alla fine svela il progetto letterario dichiarando uno dei principali fili conduttori di tutta l’opera: il viaggio. Su questa scia, il lavoro di supporto visivo di Lisa Gelli non può considerarsi una mera illustrazione.

Illustrare un libro con testi fortemente emozionali, profondi e cerebrali può rappresentare un’impresa difficile da gestire: quando si ha a che fare con metafore esistenziali, pensieri filosofici, riflessioni sofistiche e continui riferimenti all’oltre, cercare corrispondenze iconografiche dirette o segni troppo eloquenti risulterebbe didattico, prevedibile e certamente fuorviante per il lettore.

Quante volte abbiamo ascoltato amici e conoscenti manifestare, a proposito di un film visto dopo aver letto il libro dal quale è stato tratto, la delusione generale criticando il regista e il direttore della fotografia. Un accanimento ingiusto, ma più che giustificato in quanto ognuno di noi nel leggere un testo crea una precisa e personale narrazione visiva che viene puntualmente disattesa dal copione e dalla fotografia.

Consapevole di ciò, Lisa Gelli ha evitato composizioni visive eccessivamente iconografiche, puntando diritto sulla sintesi del segno, su “metafore di metafore”, su stralci di ironia esistenziale, su suggestioni percettive, su allusioni simboliche, su tracce memoriali, su una lucida e funzionale visionarieta’mai fine a se stessa, su equilibri compositivi incisivi e mai scontati nei quali il ruolo della luce è fondamentale e decisivo.

Illustrare non significa raffigurare ogni dettaglio del libro, ma creare impressioni segniche libere e, almeno in parte, svincolate dalla parte superficiale del testo per cercare immediatamente una connessione più profonda e sincera con l’autore. Lisa Gelli mette a disposizione la propria conoscenza tecnica e la sensibilità regalandoci composizioni che, nonostante alludano alle parole scritte, ci conducono verso rassicuranti stargate dimensionali.

Un labirinto intricato di parole e immagini ben presto si apre ai nostri occhi come una vera e propria opera definitiva che ci introduce verso mondi privi di riferimenti spazio-temporali. Ne risultano composizioni che completano i testi senza sovrapporsi a loro e al tempo stesso stimolano una rilettura perché offrono brandelli di realtà percepite da ottiche differenti. Nel segno, Lisa Gelli trova una memoria ancestrale che si attiva in modo naturale, senza volontà o premeditazione. La carta diventa palinsesto attivo di una serie di tracce che si sovrappongono diventando solo in un secondo momento forme.

La semplicità, l’essenzialità e la rapidità esecutiva bloccano lo stato di grazia del qui e ora, mentre la conoscenza e la consapevolezza creativa spostano il confronto tra testo e scenario visivo in dimensioni nelle quali l’unica regola da seguire è quella di non avere regole.

Senza mai dimenticare che basta dare il nome a una cosa per farla esistere.

Maurizio Vanni